I DEBITI CON LA VERITÀ

Rossella Daverio
7 min readSep 16, 2022

Piaggio Aerospace: un declino dimenticato

«L’Italia è un paese morto. Non ci sono punizioni per chi sbaglia. E non ci sono premi per chi merita». Piero Angela

La vecchia sede della Piaggio a Finale Ligure

È di qualche giorno fa un articolo del «Secolo XIX» con questo incipit:

«Nuovo colpo di scena che allontana Piaggio Aerospace dall’uscita dal commissariamento in cui vive da quasi quattro anni: l’offerta vincolante della cordata Summa Equity tramonta…».

Il quotidiano genovese, grazie in particolare alla penna della sua giornalista Gilda Ferrari, è tra i pochi che continuano a seguire con attenzione le vicende di quella che fu una delle prime e più prestigiose aziende aeronautiche italiane. L’articolo di Ferrari è stato ripreso solo da alcuni siti locali e commentato con inquietudine dai sindacati. Per il resto, silenzio. Pare che nessuno si occupi più delle sorti di Piaggio e di chi ci lavora, né presso i ministeri romani né tra i media.

È vero che gli affanni della campagna elettorale in corso, la guerra in Europa, la drammatica crisi energetica che ne consegue e la scomparsa della regina più longeva del pianeta non lasciano molto spazio né all’approfondimento né alla progettualità. Peccato.

Peccato perché la vicenda dell’impresa ligure meriterebbe azione e riflessione. O meglio ancora: azione guidata dalla riflessione. Quel che è successo a Piaggio negli ultimi anni è infatti drammatico e simbolico. Drammatico per i suoi lavoratori e le loro famiglie, simbolico di un’Italia tutta sbagliata.

La spiegazione del suo declino è racchiusa nelle parole, semplici e forti, in epigrafe. Prima che dai prodotti e mercati le sorti di un’azienda — di qualunque azienda in qualunque settore merceologico e in qualunque Paese — sono determinate infatti dal valore, professionale ed etico, delle persone che la guidano. E dalla capacità di chi la possiede — azionisti privati o pubblici che siano — di promuovere il merito e punire il demerito.

Questo in Italia avviene assai di rado. E in Piaggio Aerospace da venticinque anni a questa parte non è avvenuto mai. È la ragione che induce a contestare un solo dettaglio dell’articolo di Gilda Ferrari: no, la scomparsa progressiva di quasi tutti i candidati alla ripresa dell’azienda non è «un colpo di scena». È la conseguenza logica e prevedibile di una gestione dissennata che ha condotto prima al fallimento della storica impresa ligure e poi al suo abbandono.

La fabbrica Piaggio di Sestri Ponente (Genova) nei suoi tempi d’oro

Fondata a Genova nel 1864 da Rinaldo Piaggio, la società è stata tra i pionieri dell’aviazione italiana ed europea fino alla sua cessione, nel 1998, a uno spregiudicato affarista venezuelano, José di Mase, e al suo socio Piero Ferrari, figlio di Enzo. Purtroppo un cognome non basta a fare un imprenditore.

Sarebbe lungo elencare gli errori manageriali e le menzogne comunicative (documentabili e documentate) di coloro che dal ’98 in poi sono stati ai vertici di Piaggio, in particolare degli ultimi tre amministratori delegati che l’hanno condotta al disastro. Basti dire che hanno peccato di incompetenza, tatticismi di breve respiro, connivenza compiacente con i poteri istituzionali di turno e, soprattutto, del male più diffuso di quest’epoca autoreferenziale: il narcisismo. Pur di non perdere faccia e potere, hanno fatto credere che ciò che raccontavano fosse vero. E probabilmente lo hanno creduto loro stessi: l’illusione narcisistica è una patologia quasi invincibile

A titolo di esempio, è sufficiente ricordare due cose: una data e un elenco.

La data è quella del 7 novembre 2014. Meno di otto anni fa. In quel soleggiato venerdì d’autunno l’azienda inaugurava in pompa magna il nuovo stabilimento di Villanova d’Albenga, in provincia di Savona, e l’arrivo di denaro fresco iniettato nelle sue casse esauste da un ricco azionista arabo: il fondo sovrano Mubadala degli Emirati Arabi Uniti. Il presidente di Piaggio affermò dal palco che quella giornata era il «punto di arrivo di un percorso d’eccellenza». E il giovane premier italiano di allora, accompagnato all’evento da una pletora di ministri, generali e cardinali, si lasciò andare ai toni aulici che non gli sono inconsueti. Dopo aver sottolineato la relazione di amicizia con gli oligarchi emiratini, «che nasce da una profonda condivisione politica e geopolitica di ciò che sta avvenendo nel mondo», chiuse proclamando: «Nel tagliare il nastro di questa azienda, vorrei dirvi che il futuro è un posto bellissimo e che noi ci andremo insieme».

Purtroppo fin da allora Piaggio aveva problemi evidenti (poca innovazione, marketing approssimativo, vendite quasi inesistenti, qualità carente, produzione arcaica e debito elevato), difficilmente risolvibili con i soli petrodollari. Il denaro non puzza ma non basta. Può coprire il passivo, ma non l’incompetenza. Quanto al «futuro», una volta constatato che la sua presunta bellezza era assai appannata, nessuno ci sarebbe andato con i lavoratori della Piaggio. Tanto meno il giovane toscano rampante alla guida del governo nel 2014, che, come ben noto a tutti, avrebbe continuato a frequentare assiduamente la penisola arabica e molto meno le fabbriche liguri.

La sentenza del Tribunale di Savona che sancisce il fallimento di Piaggio

Per passare dalla data all’elenco, si tratta di quello che riassume le comunicazioni pubbliche emesse negli ultimi quattro anni dal commissario straordinario nominato il 3 dicembre 2018, dopo il fallimento di Piaggio, con la missione di gestire al meglio l’azienda e identificarne rapidamente un acquirente disposto a riprenderla e rilanciarla. L’immagine di seguito le sintetizza.

Ora siamo a metà settembre 2022. La cruda realtà dei fatti ci dice che, delle molte proposte di acquisizione evocate da quattro anni a questa parte, ne resta una sola: quella «del magnate italo-indiano Rendeep Singh Grewal» (la citazione è del «Secolo XIX»). Il suo gruppo ha nome Greran. Se si va a vederne il sito, si scopre che è attivo in una varietà di segmenti che spaziano dai vigneti all’immobiliare passando per la produzione di asfalto e kerosene e l’aviazione, intesa come manutenzione di piccoli velivoli. Il team di direzione è costituito da tre persone, tra cui il titolare, e non sono presentati i risultati finanziari. Nulla di male, per carità. Ci si domanda tuttavia se un investitore così variegato negli interessi e di dimensioni in apparenza ridotte abbia il sapere e le risorse necessarie per affrontare un settore tecnologicamente difficile, commercialmente competitivo e geopoliticamente sensibile come quello aeronautico. Lo scopriremo solo vivendo.

Quella che non resta più da scoprire è invece l’assoluta inaffidabilità delle comunicazioni del commissario straordinario incaricato di gestire Piaggio. Con estrema coerenza, ha adottato la stessa linea dei suoi predecessori alla guida dell’impresa: enfatizzare ciò che può apparire positivo e nascondere la polvere dei problemi sotto il tappeto. Ma questa tattica di breve respiro non funziona. Come qualcuno ha detto, «a ogni menzogna che diciamo contraiamo un debito con la verità. Presto o tardi quel debito va pagato».

Oggi purtroppo Piaggio i suoi debiti con la verità li sta pagando a caro prezzo. Sopravvive solo grazie a continui investimenti di denaro statale, cioè nostro. Ultimo emolumento in data è l’acquisto di sei nuovi velivoli P.180 firmato dal ministro della Difesa Lorenzo Guerini. Il rischio è che queste risorse collettive siano gettate al vento: diventino cioè una sorta di contributo caritatevole temporaneo, in assenza di un progetto strategico solido, di una visione, di una qualunque prospettiva d’avvenire.

Restano, a coloro che, come chi scrive, in Piaggio hanno lavorato o lavorano, molte ragioni di rammarico, tra cui queste tre. La prima riguarda un piano industriale di rilancio dell’azienda le cui grandi linee — intelligenti e fattibili — vennero ideate e presentate a fine 2015 da uno dei pochi ex dirigenti di valore dell’azienda, Francescomaria Tuccillo. Perché non solo il suo progetto venne osteggiato ma irritò visibilmente coloro che lo ricevettero, negli uffici ministeriali e militari di Roma e di Abu Dhabi? Salvare Piaggio non era tra le loro priorità?

La seconda è relativa all’atteggiamento supino delle istituzioni italiane di ieri e di oggi, che sarebbero poi — non dimentichiamolo mai — le figure da noi remunerate per rappresentarci. Quelle di ieri si sono prostrate di fronte all’azionista emiratino della società, di cui hanno avallato il disegno distruttivo: gli Emirati Arabi Uniti hanno considerato Piaggio soltanto moneta di scambio per ottenere altrove (cioè negli Stati Uniti) ciò che volevano a ogni costo: un drone militare di sorveglianza e combattimento. Quanto alle istituzioni di oggi, in particolare quelle che siedono nel dicastero dello Sviluppo Economico, hanno accettato senza battere ciglio l’inadeguatezza palese del commissario da loro nominato nel 2018, prorogandone a oltranza l’incarico, inizialmente previsto per un solo anno. Ora, un avvocato fallimentarista — qual’è questo signore — non è tenuto a conoscere l’industria aeronautica e le sue strategie. È tuttavia tenuto a circondarsi di persone in grado di preparare un piano industriale serio e soprattutto ha il dovere di non mentire. Perché il ministero di via Veneto non lo ha cambiato? Ne ha facoltà, ai sensi del art. 43 del decreto legislativo 8 luglio 1999, n. 270, che recita: «Il Ministro dell’Industria può in ogni tempo revocare il commissario straordinario».

L’ultimo rimpianto infine nasce dalla definizione di che cos’è un’impresa, così come la si legge nei manuali di economia: un’organizzazione complessa destinata all’ideazione, produzione e vendita di beni o servizi al fine di generare valore e redistribuirlo equamente tra tutti coloro che contribuiscono alla sua creazione. In sintesi, un’impresa è (o dovrebbe essere) un bene comune in grado di offrire lavoro, formazione, crescita professionale e sociale e consentire quindi una vita dignitosa e serena a molti. Non deve ridursi al parco giochi di pochi.

Ma questo non può accadere quando un Paese non punisce chi sbaglia e non premia chi merita. Dà, anzi, l’impressione di fare l’esatto contrario.

Le sorti di Piaggio saranno decise dal prossimo esecutivo, che nascerà da questa campagna elettorale, la più brutta, superficiale e distante dalla realtà di sempre. Sperare è quindi temerario ma resta, nonostante tutto, doveroso. Come diceva Giovanni Falcone, «possiamo sempre fare qualcosa».

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Rossella Daverio

Esperta di comunicazione e people development, ha lavorato a lungo all’estero oltre che in Italia come manager e docente universitaria.